Granchi blu: buoni, ma cattivi

Da un anno a questa parte, la moda del “granchio blu” è approdata anche sulle nostre tavole, in realtà è un fenomeno che desta preoccupazione, tra un giro di business e fenomeno da tenere sotto controllo.

Ogni giorno, i pescherecci recuperano oltre 10 mila chili di questo esemplare, ma le leggi del mercato sono molto severe e gli standard richiesti dai ristoratori, di tutti i granchi blu recuperati quotidianamente, ne salvano al massimo una decina ogni 90 e, quelli che non soddisfano le esigenze del mercato, dovrebbero essere smaltiti. Caratteristiche fondamentali che devono essere il peso, la grandezza e il fatto che il granchio più appetibile, sia maschio, decisamente più grande rispetto alla femmina. Un lavoro faticoso, ma anche un enorme business che, tra smaltimento e guadagno, crea confusione. Il ricavo giornaliero del pescato (solo del granchio blu), si aggira attorno ai 3.000 euro, mentre quello dello smaltimento, può giungere anche a sfiorare i 100mila euro, ragione per cui molti consorzi hanno deciso di stanziare un contributo pari ad €1 al chilo, per far sì che vi possa essere, almeno, un ritorno economico per la raccolta. Moda o prelibatezza che non è solo per il mercato italiano, infatti il granchio blu è molto apprezzato anche negli Stati Uniti d’America, per il sapore decisamente più dolce, rispetto ad altri granchi. I crostacei in questione, sarebbero buoni per la cucina, ma dannosi per l’ecosistema marino, poiché molto cattivi e considerati “la rovina dei mari”, poiché onnivori e si ciberebbero di qualsiasi cosa distruggendo in questo modo, gli allevamenti di vongole, cozze e crostacei e avrebbero una forza non indifferente, tanto da distruggere anche le reti dei pescatori, con le proprie chele (capaci anche di amputare le dita di una mano).

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