Storie dal mondo di mezzo Rebibbia Story

Negli anni 60 nacque Rebibbia per merito ed opera dell’architetto Sergio Lenci. La struttura venne
costruita ispirandosi a dei criteri precursori sul recupero del detenuto e sulla riflessione dello
stesso sui propri atti. Per giungere a ciò, nella mente dell’architetto si era formata decisamente
l’idea di un ambiente, di uno spazio, di colori che fossero di sprone al pensiero degli abitanti di un
nuovo genere di comunità confinata.In sostanza il carcere doveva essere tale solo per la
restrizione della vita del detenuto, non solo non privandolo del resto, ma anche ispirandolo con
mezzi visivi a quella che si potrebbe definire risalita del valore morale profondo. A questo tra
l’altro si ribellarono all’epoca diverse strutture di diversi generi: dai semplici ed eterni giustizialisti
– che vedevano la detenzione sotto forma di un obbligato ed umiliante “bugliolo” – ad arrivare
sino alle ormai tristemente note brigate rosse che addirittura attentarono alla sua vita, per fortuna
senza successo, ma lasciando all’architetto un segno indelebile della loro iniquità sia morale che
sociale: un proiettile nel cranio che il professionista dovette portare con sé (fu giudicato in
estraibile) in una parte del cranio per tutta la vita.
Ciò detto, passiamo alla cosiddetta eccellenza del nostro istituto. Così probabilmente è stata
definita nel tempo grazie alla presenza molto, ma molto più umana, rispetto agli altri istituti di
pena, delle proprie strutture, strutture attenzione, create sì, ma soprattutto seguite da tutti i
componenti del personale operante, dal singolo agente ai vari direttori. Inoltre c’è da dire che
grazie anche agli spazi come furono concepiti, nell’istituto esiste una “vera” chiesa, un “vero”
teatro”, una “vera” piazza. Tanto che mi viene in mente un aneddoto: nell’occasione
dell’inaugurazione della piazza (regolarmente registrata con decreto del Comune di Roma come
una delle 100 piazze della Capitale) il Cappellano chiese di poter dar nome alla chiesa “Chiesa del
Padre Nostro”; poi il direttore propose di chiamare la piazza “Borgo nostro”. A questo punto
proposi di chiamare il teatro… “Cosa nostra”. Ovviamente, oltre alle grandi risate, i primi due
furono accettati mentre il teatro fu intitolato ad un educatore scomparso: Piero Angerosa. C’è da
dire che la piazza è ancora adesso un luogo di incontro, per colloqui premiali, tra i bambini e i
genitori detenuti, che possono usufruire degli spazi e delle strutture (gazebo, panchine, macchine
distributrici di bevande, ecc.) presenti oltre alla chiesa.
La Chiesa è stata e continua ad essere un punto d’incontro, non solo della fede che si risveglia
nelle persone, ma anche per tanti personaggi esterni, religiosi o meno, che l’hanno onorata con la
loro presenza. Gli stessi Pontefici (Papa Giovanni Paolo II nel 1983, nella visita al suo attentatore
Mahmet Ali Agca, Papa Benedetto XVI nel 2011),in ultimo, la visita di Papa Francesco che descrivo
con questa testimonianza: Il 2 Aprile 2015 alle ore 17.00, alla portineria centrale del nostro Istituto
si è presentato il corteo papale, composto principalmente da due autovetture utilitarie, credo
siano state due Fiat Punto. Nessun eccesso, anzi, la semplicità e l’umiltà, il Santo Padre ha voluto
percorrere a piedi tutto il corridoio centrale della piccola piazza “Borgo Nostro, per l’occasione,
stracolma di detenuti, volontari e familiari del Personale dell’Amministrazione Penitenziaria. Al suo
arrivo, dalle finestre dei reparti detentivi si sono alzate le voci di chi in piazza non ha potuto
esserci. Voci, si, tante e tutte inneggianti il nome di Francesco: “ Evviva il Papa” Voci lontane, forti

come il vento. Ho visto il Papa raccoglierle per custodirle nella sua preghiera. Voci di mille paesi
lontani tutte dallo stesso significato: “la Speranza, la preghiera, l’amore”. Evviva Francesco, il
nostro papà. Si, Il Santo Padre ha voluto stringere la mano di tutti i detenuti presenti, li ha
abbracciati uno per uno senza risparmiarsi. Immagini che nessuna fotografia e nessun
documentario video hanno la forza di raccontare. Mani, braccia, occhi, ogn’uno a cercare un
contatto, una carezza, una parola buona e vera. Così è stato.
Nel corridoio che conduce nella sala, dove è stata allestita la sagrestia, io, con un bel gruppo di
detenuti e detenute, abbiamo atteso il Santo Padre per offrirgli dei doni, oggetti semplici, fatti con
amore, perfino una papalina, realizzata dalle detenute dell’alta sicurezza della Casa Circondariale
Rebibbia Femminile, papalina che il Papa ha indossato con vero piacere. Io,ho consegnato, a nome
del Personale dell’Amministrazione Penitenziaria, un cesto contenente alcuni prodotti realizzati in
Istituto, (il caffè Galeotto, Biscotti e marmellate), poi una busta di mate, la bevanda preferita da
Sua Santità. Mi ha chiesto se il mate fosse prodotto in questo Istituto, ho risposto : “ No Santo
Padre, l’abbiamo scelto perché sappiamo che a Lei piace e che è una bevanda tipica del suo
lontano Paese”. Mi ha sorriso, poi mi ha stretto la mano e io gli ho chiesto se si potesse pregare
insieme per i nostri fratelli Agenti e Detenuti, abbiamo recitato il Padre Nostro. In quel momento
ho pensato a mia Madre Maria e a mio Padre Saverio e a tutte le persone che soffrono nella
malattia, nella solitudine, specialmente per tutti coloro che vivono nella speranza di una vita
migliore. Non so quanto tempo sia trascorso in quel breve colloquio, non lo potrò mai quantificare
ma so che rimarrà unico ed indimenticabile.
Il Papa ha proseguito nella sua missione recandosi nella Chiesa del Padre Nostro dove ha
celebrato la Santa Messa, per l’occasione erano presenti tantissime detenute del carcere
femminile di Rebibbia unitamente ai loro figli. Una di questi, una bambina di circa tre anni, è
rimasta sulla soglia dell’altare per tutto il tempo, osservata con occhio sorridente e benevolo dal
Santo Padre visibilmente commosso. Ha poi proseguito con la tradizione del lavaggio dei piedi di
dodici detenuti simboleggianti i Santi Apostoli. Gesto che caratterizza l’umiltà di questo Uomo
venuto da lontano e che come Gesù, raccoglie la sofferenza della Croce per condurla al cospetto
di Dio
Credetemi, per me è stato un privilegio essere in sua compagnia tenendo conto che è un gioia ,
incrociare i suoi occhi e godere del suo solare sorriso.
Alle ore 19.40, il Santo Padre , prima di lasciare l’Istituto, ha voluto salutare tutti i presenti
radunati nel piccolo piazzale, che per l’occasione sembrava Piazza San Pietro in miniatura, ha
rivolto l’Augurio di Buona Pasqua e poi ha chiesto di pregare per lui e ha concluso con il “Padre
Nostro.
Ha ripercorso il corridoio centrale e questa volta ha abbracciato le nostre famiglie, singolarmente,
una per una. Si è poi soffermato a guardare i finestroni dei due reparti detentivi da dove
giungevano le voci di chi non ha potuto vederlo da vicino, toccarlo, stringerlo. Il Papa ha aperto le
sue braccia come a volerli abbracciare tutti. Questa è stata la prima tappa della Via Crucis del
Santo Padre.

Va segnalato che nel 1989, nella Vigilia di Natale, proprio nella Chiesa, per parte del Teatro
dell’Opera di Roma, fu al suo interno rappresentato “Il Nabucco” con coro ed orchestra diretta dal
Maestro Morandi. Un regalo che ci fu fatto dall’allora soprintendente Cresci. Fu un momento di
grande emozione che, ne sono certo, avrebbe coinvolto anche il grande maestro Verdi.
Ma a parte ciò, la stessa chiesa è anche frequentata dagli ortodossi con il loro cappellano, mentre
la piazza si presta per ricevere la festa del Ramadan per i detenuti di religione musulmana, oltre ad
essersi prestata spessissimo per le feste della musica con la partecipazione di famosi artisti e
cantanti, tra cui Gianni Morandi, Paola Turci, Max Gazzé, Claudio Baglioni….
Ma parliamo del teatro. Del vero teatro. Questo può ospitare comodamente 350 persone, ha un
suo palcoscenico, le sue quinte, il suo piccolo ufficio, tutte strutture aggiuntive create con l’aiuto
dei “cittadini” detenuti, cui sono ricorso, scegliendo ed invitando ognuno tenendo conto della
specializzazione che svolgeva in libertà (falegnami, carpentieri, fabbri, muratori, ecc.), alla cui
passata collaborazione devo riconoscenza per come si sono prodigati instancabilmente alla
realizzazione di quanto progettato. Questa struttura, di cui sarò eternamente innamorato, a causa
di altri incarichi ricevuti, è dal 2001 stata affidata a varie persone esterne che mandano avanti i
progetti, l’ultimo dei quali – il film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire”, organizzato dal regista
Fabio Cavalli che con la sua associazione “Enrico Maria Salerno” ha portato a termine, creando
all’interno la compagnia teatrale dei Liberi Artisti Associati (detenuti in alta sicurezza con lunghi
“fine pena”), oltre all’organizzazione di questo film, anche una serie di spettacoli che hanno avuto
il plauso di scolaresche e del pubblico esterno.
Nel mese di gennaio del 2018, ho presentato presso la Sala Teatro dell’Istituto “lettera a un
giovane detenuto”, un lavoro teatrale scritto e diretto da me con la partecipazione di dieci
detenuti. Lo spettacolo è stato apprezzato dalle scolaresche di alcuni Istituti scolastici della
Capitale, tra cui, alcuni studenti universitari della facoltà di giurisprudenza della Sapienza di Roma.
Non posso ora non parlare dell’importanza delle scuole e della nostra bellissima biblioteca, così
chiamata “Papillon” in onore dello scrittore Henri Charriere. La biblioteca, nata con l’aiuto di
privati cittadini che hanno donato libri, è un luogo anch’essa di ritrovo, di confronti con ospiti
esterni, di presentazioni di nuovi libri, Vi operano dei giovani studenti detenuti che la gestiscono
sotto la direzione delle Biblioteche di Roma, ed è bello sottolineare la bellezza delle modalità in cui
questa Papillon è quotidianamente vissuta. Al suo interno sono praticamente esclusi controlli
continui, vige un clima di fiducia e di simpatia che sinora non ha mai deluso. Quando mi è capitato
di entrarvi, mi sono sentito osservato dall’alto da titoli importanti, da nomi famosi, come un invito
alla libertà, e guardando gli occhi di questi ragazzi, vi ho letto puntualmente fiducia e speranza nel
futuro, Con essi mi sono confrontato, ho parlato, ascoltato soprattutto e ho capito, compreso
problemi e situazioni ma intorno ad esse proprio qui alla Papillon aleggia il seme della rinascita,
così almeno credo e voglio sperare. Ogni sera, al mio rientro a casa, guardando gli occhi di mia
moglie e mia figlia, osservando il mio gatto ed il mio cane, ricordo con piacere quella speranza che
ho sentito nell’aria, pur non avendo a casa portato il mio lavoro, quella sensazione mi conforta e
conservo nell’ampolla dei miei pensieri la consapevolezza dell’entusiasmo e dell’amore che ho
avuto per il mio lavoro.

Ed ora, la pagina sportiva. E’ evidente la rilevanza educativa dello sport nell’ambito di una
detenzione. Lo sport è a livello conscio ed inconscio disciplina, educazione civica, rispetto. Tutte
queste cose ben celate nel divertimento di chi vi assiste e, meglio, di chi lo pratica. Da non
trascurare lo sfogo fisico e mentale che ne deriva. Uno scarico della tensione e spesso
dell’aggressività. Quando abbiamo organizzato dei piccoli tornei interni di calciotto, abbiamo
creato negli atleti detenuti, oltre che ad un diversivo utilissimo per il morale, anche un preciso
senso di responsabilità insito nella partecipazione ad una contesa sportiva. Abbiamo visto
personalmente detenuti riabilitati con loro stessi effettuare serene e convinte autocritiche del
proprio passato, esattamente in coincidenza dei loro successi (o insuccessi) nell’ambito sportivo.
Spesso organizzavo triangolari con squadre di vari reparti ed anche esterne, nonché con la
rappresentativa della Polizia Penitenziaria Io stesso fungevo da arbitro e devo dire che ho visto con
soddisfazione e compiacimento comportamenti tali che potrebbero essere d’esempio a tante
brutture sportive che spesso vediamo svolgersi all’esterno anche nelle grandi squadre nazionali.
Mentre la mia ultima esperienza in campo è stata quella di vedere un giovane giocatore detenuto
correre nel gioco con l’entusiasmo ed il senso della libertà espressa come da un’ aquila che si libra
in volo.
Quello che ho voluto chiamare “Spazio Neutro”, ha rappresentato un valore più che semantico –
in realtà il gioco dei sostantivi è chiaro di per sé – ma decisamente formale. Perché è di una
neutralità che si ha bisogno nei momenti di maggior scesa del proprio inconscio, di uno spazio
dove questa possa agire ed interagire e di un momento di creazione intellettuale del proprio
escursus di vita. Perciò, nello spazio neutro, non ci sono state celle, sbarre, manette, non ci sono
state divise, stellette ed ordini, non brande e non corridoi bui, ma soltanto strade da percorrere
nella purezza di un solo pensiero, finalizzato ad un obbiettivo presuntuoso ed ambito,
raggiungibile solo la propria ed unica neutra volontà, primaria volontà, ordinante volontà: la
catarsi di una parte della propria coscienza. Appalto questa in special modo dei detenuti più
giovani, coloro cui comandare l’astinenza da droga (intesa in senso lato e ricordando che anche il
crimine di per sé è droga) è più facile e più difficile al tempo, poiché è decisione che spetta a loro
stessi e dunque decisione che può essere deliberata unicamente in uno spazio neutro, uno spazio
ove appunto non vi siano ordini se non provenienti da se stessi. La spersonalizzazione addiviene
esclusivamente nei casi in cui la consapevolezza del numero che si rappresenta è appunto creata
dalla mancanza della neutralità del rapporto umano che non esiste tra le mura esterne ed interne
di una cella, ma si raffigura e crea in uno spazio neutro dove il detenuto non è più un numero ma
un cittadino detenuto con la sua personalità. Anche perché il carcere, in fondo ma non troppo, è
parte integrante e necessaria della società in cui viviamo, un mezzo certamente duro, che può
però essere alleviato da “spazi neutri” ma necessario alla tutela del cittadino comune.
Io Luigi Giannelli, così definito il comunicatore. Ebbene che si sappia che la comunicazione, ed è
inutile ribadirlo a chi di tanto s’intende, è una componente essenziale del rapporto umano. La base
della comunicazione, almeno come io la intendo, è l’amore per il proprio lavoro, il vederlo
veramente come una sorta di missione; l’amore per il prossimo e in particolare per il prossimo
sofferente. Non ho mai ceduto alla tentazione di spersonalizzare il detenuto ed agire in molte
circostanze in modo informale e meccanico. Come se fossi un medico, ho voluto soffrire per le

piaghe che ho curato, comprendere e sentire il dolore di chi ho dovuto operare. Voglio dire che
sin quando riuscirò a sopportare il peso di una responsabilità nei confronti di tanti e tanti che non
hanno né diritti né difese, riuscirò ad esser strumento, anche se da pensionato, senza peraltro
lasciarmi strumentalizzare, della auspicabile rinascita di un essere umano restituito con dignità alla
società dalla quale proveniva. La mia “comunicazione” consiste nel capire e nel far comprendere
che ciò che si fa, le opere, le omissioni, provengono da se stessi e che solo noi siamo in grado di
decidere del nostro futuro destino. E’ un po’ come i medici che raccomandano di non fumare:
smettere di fumare è senz’altro una decisione autonoma dove il medico non può obbligare taluno
a dismettere il fumo, ma può comunicargli con i mezzi a propria disposizione, gli enormi danni che
il fumo ha procurato al paziente. Risveglio di coscienza? Invito, anche per questo, i giovani in
carcere a non abituarsi mai, a non cedere all’ambiente che occupano, ma a vederlo proprio come
un possibile tumore che potrebbe un domani colpirli in maniera grave se non definitiva, come su
tanti, con enorme tristezza, ho avuto modo di osservare. Faccio e farò ancora del mio meglio e, se
con la mia “comunicazione”, con l’aiuto dello Spazio Neutro, con il supporto di tutte le belle
strutture a disposizione, uno solo su venti detenuti, riuscirà a riabilitarsi con la società, ma
soprattutto con se stesso, allora, come disse un grande della storia, il mio lavoro non sarà stato
inutile.

già S. Commissario Coordinatore Luigi Giannelli

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