a cura di Luigi Giannelli
Non è facile, non è per niente facile rimuovere dai ricordi un fatto che ancora oggi mi fa svegliare di notte tra gli incubi peggiori.
Era il 1966, credo gennaio. L’inverno da noi non era molto freddo, le stagioni, eccetto l’estate, mantenevano un clima mite. Noi ragazzini, quelli del ceto più basso, indossavamo i pantaloncini corti, tipo quelli da scugnizzi. Si batava poco alla forma, la vivacità era la nostra ricchezza ma anche il freno a mano per la crescita culturale. Spesso marinavamo la scuola per dedicarci a giochi di fantasia, escursioni nelle campagne in cerca di povere lucertole da sacrificare alla nostra folle incoscienza.
Sono il quinto di otto figli, una famiglia numerosa e molto unità. Mamma Maria ci ha lasciati molto presto, aveva 66 anni, papà Saverio, un po’ di anni dopo.
Parabita, un piccolo paesino in provincia di Lecce, a pochi chilometri da Gallipoli. Un paese dove la vita scorreva serena, noi bambini scorazzavamo per le strade esibendo tutta la nostra goliardia.
Quella mattina di gennaio, ricordo ancora con nitidezza ogni particolare, raggiunsi come al solito il punto della strada dove incontravo il mio amico Luigi per poi proseguire insieme fino all’edificio scolastico. Luigi era di qualche anno più grande di me, era ripetente. Era molto bravo a costruire Skateboard rudimentali, un pezzo di legno con quattro ruote cilindriche. Era il nostro passatempo preferito anche se molto pericoloso.
Suonò la campanella, uscimmo di scuola, proseguimmo verso casa sua, una donna cercò di fermarci offrendoci delle caramelle. Io non conoscevo quella strana signora, sapevo però, che molti nel paese la consideravano una strega. Mi rifiutai di accettare le sue caramelle e scappai via con tutte le forze che avevo nelle gambe. Mi voltai, vidi il mio amico Luigi allontanarsi con la megera che lo teneva stretto per la mano.
Quella è stata l’ultima volta che vidi il mio amico.
In tarda sera, sentii i miei genitori parlare della scomparsa di un bambino, una notizia agghiacciante che mi paralizzò dalla paura.
Dopo tre giorni seppi che una donna, conosciuta con il nomignolo di “ monaca paccia”, (monaca pazza), aveva sequestrato un bambino, lo aveva soffocato e con della vernice dorata aveva colorato il suo povero corpo, dopo averlo ripetutamente percosso e martoriato. Quel bambino di otto anni era Luigi, il mio amico dorato.
Furono i carabinieri, grazie a fiuto dell’unità cinofila, a rinvenire il povero corpo martoriato, chiuso in un armadio nella casa della strega. Una donna con un passato incerto tra religione e misticismo.
Era il 10 gennaio 1966, a Parabita nevicava e io, superstite, lanciai delle palle di neve verso il cielo.
La monaca, Addolorata Astore, fu rinchiusa in un manicomio criminale dove morì alcuni anni dopo nel suo delirio e nell’assoluto abbandono di tutti.