A cura di Luigi Giannelli
Sono passati ormai quindici anni da quel periodo florido e straordinario per il gioco del calcio nella Casa Circondariale Rebibbia N.C. “Raffaele Cinotti”. Nei lunghi corridoi della città dolente incontrai per caso Francesco Quintini, uomo di sport e grande portiere dell’A.S. Roma negli anni 70. Era venuto in carcere per presentare un progetto davvero rivoluzionario per la nostra realtà, creare una scuola calcio per calciatori adulti e per giunta detenuti.Lo guardai come Marty guardò il suo amico scienziato “Doc”, nel film ritorno al futuro. Capii immediatamente l’entusiasmo e la determinazione di Francesco, tanto da coinvolgermi in quella apparente follia, che nel tempo, si trasformò in una vera e propria rivoluzione in un contesto dove il gioco assumeva l’aspetto del calcio fiorentino e le vittorie si ottenevano solo con la forza fisica e non con la tattica e l’eleganze di questo sport filosoficamente alto. I primi detenuti ad essere coinvolti furono gli stranieri, giovani provenienti da ogni parte del mondo e quasi tutti, sprovvisti di formazione calcistica. Veri e propri talenti naturali, orgogliosi come cavalli di razza, difficili da educare. Il campo che identificammo fu quello del Reparto G. 11, definito, fin dall’origine, il Bronx, per il fatto che al suo interno ospitasse, in modo particolare, giovani ribelli e meno avvezzi al sistema detentivo e molti di essi, appunto, stranieri. Li adunammo al centro del campo, oddio, chiamare campo uno spazio di terra battuta, senza terra, mi pare un po’ troppo, comunque, era pur sempre uno spazio aperto, sempre meglio dell’angusta cella. Francesco si trovò davanti a venti ragazzi,il primo gruppo che accettò di partecipare al progetto. Ci guardarono come se fossimo marziani, in effetti, non avevano tutti i torti, nessuno mai prima,
aveva proposto un fatto del genere. Mister, Prof, soccer, “la Torre di Babele”, tanti idiomi, alcuni
incomprensibili. Unico linguaggio semplice fu il lancio del pallone in aria e tutti compresero, in quel gesto, il significato della nostra presenza in quel luogo.
Non vi nascondo la commozione di quel momento, la mia e quella di Francesco. Rimanemmo ammirati nel vedere la loro reazione di fiducia nei nostri confronti. Quel campetto di terra battuta ci sembrò lo stadio Camp Nou di Barcellona. Cominciammo a distribuire i fratini (pettorine), per differenziare le squadre.
Chiesi a uno dei ragazzi di andare a prendere i cinesini, tornò dopo poco, un pò deluso, mi disse: “ Mister, ho guardato bene, qui ci sono tutti i tipi di razze ma i cinesini no!”. Non seppi trattenere le risate. Spiegai che i cinesini sono i coni segnalatori per il gioco del calcio e che assomigliano ai cappellini usati dai cinesi, rise molto anche lui.
Guardandoli mi venne in mente la canzone di De Gregori “ la leva calcistica della classe 68”, in particolare alcune strofe: “Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”. Si, in quel testo c’era il significato del nostro impegno. Il grande amore di Francesco nel voler educare questi ragazzi all’essenza dello sport, attraverso le regole e la conoscenza tecnica.
Scendemmo in campo in un pomeriggio particolarmente assolato. Le due squadre indossarono, per la prima volta, delle vere casacche con i numeri e con i colori di appartenenza. Li guardammo con orgoglio, l’ingresso era quello ufficiale, il pubblico, disposto nei lati del rettangolo di gioco, fortificato da enormi muri di ferro, era pronto ad incitare, non le squadre, ma la bellezza del gioco che per tutto il tempo della partita, allontanò dai loro pensieri quel luogo angusto e sofferente.
Non ricordo il risultato della partita, ricordo bene l’affettuoso abbraccio che dedicarono a Mister Quintini e il rispettoso apprezzamento alla mia persona.Si intende sottolineare l’importanza di questi progetti che vanno ad essere un ulteriore punto di coesione sociale per tutti coloro che durante il Campionato interno ne potranno usufruire.
I detenuti in particolare, potranno sempre più vivere in un ambiente molto vicino a quello della “normalità” tanto da favorire in modo evidente un percorso fattivo di reinserimento nella vita di uomini liberi che attraverso lo sport possono trovare le giuste motivazioni per riconoscere serenamente i loro errori del passato. Il gioco del calcio significa regola e disciplina ma anche leale competizione e confronto con se stessi e gli altri. E proprio il caso di avere intitolato il progetto “Un calcio al passato, Speranza per il futuro”.
“Lo sport, così come l’arte, è un diritto di tutti e, soprattutto, rappresenta un riferimento immediato per una migliore qualità della vita, da affermare sia negli impianti tradizionali, sia in ambienti diversi. Lo sport, in questo modo, non è più solo pratica, passione o cultura, ma diventa, in questi contesti così difficili, un pretesto per promuovere la persona, per valorizzare competenze, esperienze di vita, per creare relazioni e fare comunità, scavalcando difficoltà e barriere”.