Spesso i ricordi si assopiscono nella nostra mente indotti a sonnecchiare dal
ritmo incalzante della vita che si conduce. Non si dimentica quasi nulla, questo
no, ma a volte non si è capaci di ricordare. Poi una circostanza, magari fortuita,
ti sveglia all’improvviso da quel torpore di cui non ti eri neanche reso conto.Che
so, una cartolina, una frase, un viaggio. L’occhio che si sofferma un attimo in
più su un’immagine, la mente che casualmente risveglia un sapore, un aroma,
un odore. Il mio ultimo viaggio a Parabita non è stato una vacanza, anzi, forse
era un viaggio che non avrei voluto fare: circostanze naturali e tristi mi ci hanno
quasi costretto, ma non parlo di questo ora, voglio invece parlare del mio
paese, Parabita, come lo ricordavo distrattamente e di come l’attenzione mi sia
soffermata su di esso. Ma la memoria, risvegliata, ha fatto ben presto a
riportare a galla tutta la dolce nostalgia dei ricordi.
Bavota, Paravita: nomi antichi, primi di questo paese stupendo che oggi conta
almeno diecimila abitanti. Ritornarvi per me è stata come una scoperta e poi
una concentrazione piacevole di una ricerca del tempo passato e perduto. Un
ritorno a scoprire la grande ricchezza di questa terra, costruita essenzialmente
sull’agricoltura, sulla coltivazione del grano, delle patate, del tabacco, degli
ortaggi, della frutta.
Ho rivisto il maestoso castello ed il Santuario, oggi Basilica, della Madonna della
Coltura. Li ho guardati con occhi diversi, rivisitandoli spogliato dall’abitudine e
dalla quotidianità, oltraggiosi sonniferi dell’attenzione, e mi hanno affascinato.
Così come mi ha colpito ed inorgoglito la sua crescita delle sue scuole,
dell’Istituto d’Arte.
Sono nate e progrediscono tante associazioni: dalla Pro Loco alle Acli, da quella
dei Commercianti a quelle Calcistiche e Podistiche; le Congregazioni religiose e
il grande Centro di Solidarietà Madonna della Coltura, luogo quest’ultimo, dove
si conserva, per nostra fortuna, e speriamo più a lungo possibile, una buona
parte della storia non scritta ma ben scolpita nel cervello e nelle emozioni dei
nostri adorabili vecchietti.
Quel paesino che ricordavo con gli occhi da fanciullo si è trasformato in un
grande paese moderno con le sue banche, i suoi negozi, le sue pizzerie e quel
tipico “ Roccu ta Pizzeria”, il ristorante-Albergo Regina, oggi “Le Veneri”
Ho visitato il Museo Civico con la Pinacoteca, rinnovato e rinfrescato da mani
volenterose e l’artistica chiesa di San Pasquale, così antica, così ricca di
affreschi ed antiche cornici, nei quali la storia viaggia lontana nel tempo,
testimoniando con insistenza quanto abbia contato questo paese nelle sue
pagine.
Parabita, anche se si estende sulla pianura salentina, sorge nella sua zona
collinosa, ed è per questo che gli “altri” ci chiamano montanari. Da qualsiasi
parte si giunga, essa ormai si riconosce dalla discussa antenna di RAI 2, bianca
e rossa, alta credo ben 125 metri. Chi conosce Roma può trovarvi somiglianza
con quella di Monte Mario. Discussa, dicevo, perché la gente del posto continua
a protestare con le autorità, sostenendo che questa antenna porta “ u bruttu
male”. Sarà vero? Speriamo di no, perché se ben conosco il carattere dei miei
compaesani, non mi stupirei un giorno che vi fosse conferma a questa diceria,
che l’antenna d’incanto, sparisse.
Da lontano, arrivando, ho rivisto e rammentato il tipico colore bianco delle case
del quartiere Bari Vecchiu, nel paese basso e antico, con le sue stradine
strettissime legate da antichi archetti di congiunzione, fregiati di colonnine e di
altorilievi; con i balconcini al primo piano e le finestre decorate del “ piano
nobile”.
Ho passeggiato tra le botteghe artigiane dei maestri del ferro battuto, e poi nei
negozi, lasciandomi trasportare da tanti ricordi che mi vedevano bambino.
Ricordo la paparina, quella verdura che sorge spontanea nei nostri campi,
soffritta nell’olio con le olive ed il peperoncino, il cui sapore amarognolo –
dolciastro non ricordo bene, per il troppo tempo passato da quando non l’ho
provato e come l’ho desiderato). Era un tempo il piatto ei poveri, mentre oggi è
divenuto ricercato e, perché no, raffinato. Alla paparina collego il dialogo dei
paesani quando chiedevano: “ socra mia, l’hai codda la paparina?” ed alla
risposta affermativa ed invitante rispondevano: “ Ndafriscu li morti tua!”.
Risposta usata ogni qual volta si vuol ringraziare qualcuno per un atto generoso
ricevuto. Ed è per questo, anche, che tornato via da Parabita e immerso nella
vita di tutti i giorni, mi piace immaginare che la storia del mio grande ed antico
paese, provenga dalle ingiallite pergamene e dal canto di un antico menestrello,
dove nell’irrealtà del sogno, si concretizza una romantica possibilità di nascita
del mio paese, così come se la memoria andasse oltre lo spazio consentito,
soffermandosi ad arricchire i suoi dati con l’amorevole ed ingenua fantasia di un
fanciullo. Ricordo non ultima, la grotta della “Madonna tu carottu”, dove mio
padre mi accompagnava da bambino e che io avevo eletto come mio rifugio.
Ogni volta infatti che avevo dei problemi di qualunque tipo o che
semplicemente mi sentivo depresso e sperduto in una vita appena all’inizio,
correvo a piedi scalzi, ferendomi spesso, fino a soffermarmi a lungo al suo
interno. Mio padre a volte, per spaventarmi, mi diceva che vi erano dei serpenti
che noi chiamavamo in dialetto “scurzuni”, e che se li volevo vedere dovevo
recitare questa frase in continuazione: “U monucu cu la monaca”. In effetti la
frase, detta a ripetizione, a volte era efficace: non perché fosse magica,
naturalmente, ma perché evidentemente gli “scurzuni” venivano in qualche
modo attirati dal rumore della voce. Insomma questa grotta era diventata per
me un luogo di culto. Quando mi ci recavo, mi piaceva immaginare storie
moderne ed antiche: vedevo principi e draghi che l’abitavano, mi chiedevo che
età avesse e un tempo qualcuno l’avesse abitata oppure, come me, ne aveva
fatto il suo rifugio; conversavo e giocavo con fantasiosi amici e conservavo al
suo interno, ben nascosta, la scatola dei miei segreti, in realtà cianfrusaglie di
ogni tipo. Mio padre aveva ben compreso l’importanza che aveva per me quel
posto, e non a caso, quando morì, tra le cose che egli con sacrifici era arrivato a
possedere, scelsi quella. Per i paesani quel luogo era un punto di riferimento
con tutte le leggende che vi si narravano a riguardo. Si diceva che chi vi
entrava attraverso il “buco”, se fosse riuscito a passare dall’altra parte allora era
“fiju te mamma bona”, al contrario chi non passava era “fiju te mamma p…”.
Era una sorta di sfida tra bambini, ed era anche un bel problema per chi, per
problemi di dimensione e peso, non riusciva a passare. Proprio in questa grotta,
e nella zona limitrofa, oggi di mia proprietà, in passato più di una volta, il paese
ha organizzato un presepio vivente.
Quelle rare volte in cui sono tornato a visitarla, mi sono soffermato a guardare
l’ulivo che mio padre aveva piantato in mezzo alle pietre, e l’enorme albero di
cornula che vi sorge spontaneamente. La cornula produce dei frutti molto
graditi dai cavalli… ma che noi bambini mangiavamo con altrettanto gusto. Ed
ancora oggi, quando mi avvicino a quell’albero e ne colgo un frutto, vedo mio
padre sorridente che mi osserva sornione. Ed ecco, con il frutto pronto ad
essere consumato, che la mia fantasia ancora si sbriglia immaginando un’antica
favola. C’era una volta, in una parte della Regione, quella zona dove lo Stivale
d’Italia forma sulla carta un’armoniosa forma di sperone, quasi a simboleggiare
l’essenza ornamentale e fattiva di un semplice accessorio, una grande terra
fertile ed abbondante. Una terra che fremeva d’attesa per l’uomo che ancora
doveva arrivare, una terra che da millenni conservava tanti segreti, tanti amori
perduti e che desiderava essere coltivata, lavorata, una terra che voleva essere
considerata parte del mondo, che poteva nutrire e nutrirsi del più antico lavoro.
La coltivazione. Questa terra, vasta e collinosa, non poteva impedire all’erba e
agli sterpi di formarsi sui suoi strati, ma il vento e le stagioni l’aiutavano a
sopravvivere e conservare tutto il naturale umore che vi era sparso. Vaste
nuvole, bianche e soffici, vigilavano come guardiani gelosi, sulla sua integrità,
cambiando colore solo per fornirle acqua, per poi tergere l’aria di trasparente
freschezza e volare leggere, rinnovandosi verso il mare.
Un lontano giorno di primavera, due cavalli stanchi affacciarono dall’alto di una
collina. Erano bardati di ricchi finimenti; da sotto le selle sporgevano sontuose
coperte azzurre ricamate in oro. Alle loro spalle, un corteo di gente, come in un
pellegrinaggio, seguivano le due giovani figure in sella. Erano un principe e la
sua promessa sposa. Venivano da terre lontane conducendo con loro amici e
sudditi, che strada facendo si erano uniti in un’unica, grande famiglia. Venivano
fuggendo da un luogo che non voleva che si amassero, e nel viaggiare, forse
per il dispiacere, la donzella si era ammalata. Il suo viso dolcissimo infatti, era
pallido, la sua pelle opaca, ed i suoi occhi azzurri avevano assunto un colore
vitreo. Ma lui, il principe, le aveva promesso, come ai suoi fedeli, che avrebbe
trovato un nuovo regno, una nuova terra dove vivere dove la sua amata
sarebbe guarita. E a chi gli domandava dove fosse questa terra e come
l’avrebbe riconosciuta, lui rispondeva fiducioso che non era necessario
conoscerla, essa stessa si sarebbe rivelata. Recavano con loro, su grossi e lenti
carri, tutti i loro beni: attrezzi per la terra e per l’artigianato, stipati e conservati
meticolosamente. Avevano viaggiato per tanto e tanto tempo, durante il quale
erano cambiate stagioni, terre e clima, ma la fiducia del principe non era mai
crollata: era ferma, determinata, certa, ed ostentava quella sicurezza e quel
carisma che aveva convinto tutti a seguirlo.
Così, quel giorno il principe, dall’alto della collina, sentì nitrire il suo cavallo, che
si impennò appena sulle zampe anteriori, come un segnale. Si guardò allora
intorno e vide stendersi, sotto il suo sguardo, una vastissima zona fatta di prati
e di vegetazione, dove fiorivano spontanei alberi di fico e di olivo, dove
germogli di natura palpitavano, come a mostrare la loro generosità. Allora si
arrestò e scese.
Tenendo il cavallo per le briglie, gettò un lungo sguardo circolare intorno, poi si
volse a guardare la sua donzella e le sorrise. Ella ricambiò il suo sguardo
accennando a sua volta un sorriso, come una domanda, allora lui si chinò,
raccolse una manciata di erba mista a terra, l’avvicinò al viso palpandola ed
annusandola, poi, come una conferma, la brandì verso la ragazza dicendole:
“Alfine siamo giunti, mio amore!.”
E siccome il suo cavallo dava segni di volersi muovere, lo rabbonì con una
carezza e porse le redini ad un suo fedele andando ad aiutare la ragazza a
smontare.
Lei portava una lunga veste di seta liscia ed un corpetto aderente, i suoi lunghi
capelli bruni ondeggiarono al leggero vento che si era alzato. Era debole, ma
ebbe la forza di sorridere e di lasciarsi adagiare sul cavallo del principe.
Questi nitrì di nuovo, allora il principe si tolse dal collo una catena d’oro cui era
fissato un crocifisso smaltato, si pose davanti all’animale e gli mise la catena
intorno al collo. Poi risalì in sella dietro la sua amata e sciolse le briglie,
lasciando che il cavallo prendesse strada da solo con un leggero trotto.
I suoi fedeli, ormai raggruppati intorno all’altro cavallo, videro i due giovani
diventare sempre più piccoli, fino a sparire dietro un’altra altura. Si volsero,
allora e cominciarono a prepararsi per la sosta, mentre le donne cominciavano
ad affaccendarsi per far bivacco e i ragazzi prendevano dei secchi in legno e si
allontanavano per andare a cercare l’acqua, gli uomini si guardavano intorno,
cominciando a discutere di coltivazioni, intuendo già anche loro che forse, alla
fine di tanto viaggiare, avevano raggiunto la meta.
Intanto il principe e la sua promessa sposa, guidati dal proprio cavallo, si erano
addentrati tra gli alberi, in una macchia di vegetazione. Il cavallo si era fermato,
volgendo il muso verso un grosso spuntone di roccia che troneggiava in mezzo
al verde. Il principe smontò e, tenendo il cavallo per le briglie, guardò a lungo la
roccia, e la toccò, sentendo sotto le sue dita la sensazione di qualcosa di vivo.
Poi aiutò a smontare la sua donzella, tolse i finimenti al cavallo, adagiò una
coperta a ridosso di un albero e vi fece sedere la ragazza, stanca e provata
dalla malattia.
Quindi istintivamente si pose di fronte alla roccia, si inginocchiò e cominciò a
pregare, mentre il sole, ormai al tramonto gli illuminava il viso tingendolo di
rosa. Fu allora che scorse, prossima alla roccia una piccola apertura naturale, in
parte dissimulata dalla zona d’ombra circostante, che un residuo raggio di sole
in quel momento mostrava come una specie di ingresso verso qualcosa di
mistico. Si alzò allora, e lentamente si pose davanti all’apertura. I suoi occhi
potettero vedere una piccola grotta illuminata da riflessi di luce, una grotta che
sfociava a pochi metri verso un’altra apertura. Il principe mosse pochi passi
all’interno, sentendosi pervaso da una sensazione di vita, da un qualcosa di
pulsante che sembrava narrare una storia molto antica. Intorno a lui roccia
nella roccia, un calore come di un fuoco mai spento, un’immagine di una dimora
perduta di cui la grotta era pregna. Ebbe allora l’intuizione di essere giunto
realmente alla fine del viaggio, la consapevolezza di aver trovato non solo la
terra promessa ma anche una divina protezione che il Signore aveva voluto
assegnargli. In seguito questa zona sarà denominata Madonna tu carottu.
Sull’altura intanto, gli uomini avevano alzato le tende e acceso i fuochi, mentre i
ragazzi con stupore ed entusiasmo avevano trovato polle d’acqua scavando
nella terra. Nessuno si chiedeva dove fossero i loro principi, salvo ogni tanto
uno sguardo lanciato nella direzione dove erano scomparsi.
Senza sapere perché, tutti si sentivano già a casa loro, sentivano che quella
fertile terra era la loro destinazione e qualcuno già si chiedeva come avrebbero
chiamato quella stupenda zona, così generosa da conservar per loro l’acqua
chiara nascosta nelle sue viscere.
Sorridevano, mangiando lo scarso cibo conservato in sacche di pelle, si
sentivano come protetti, come se nulla ormai potesse toglier loro la ricchezza
che avevano trovato. Qualcuno, vicino al fuoco acceso, già affilava la falce ed il
trincetto, pregando Dio di poterlo presto usare. Altri estraevano dai carri le
capase, grandi anfore di lontana fattura, per riempirle dei fichi che le donne
avevano già raccolto. Poi parlarono del principe e della futura principessa, si
dolsero dal loro destino che li aveva costretti a fuggire dalle loro case. Ne
narrano ancora una volta la dolce e romantica storia, la storia semplice di un
regale giovane che un giorno, girando per la sua contrada, aveva incontrato
una giovane contadina dai capelli bruni. I loro occhi si erano incrociati tra il volo
di colorate farfalle ed il frinire delle cicale, le loro mani si erano strette col sole
ed erano rimaste legate con la luna, fino ad un dolce bacio ed una promessa di
rimanere uniti per sempre, ed avevano portata a testimone della loro purezza,
dei loro cristallini sentimenti, la Mamma del Signore, eleggendola loro
protettrice e protettrice del lavoro dei campi che il principe era disposto a fare
pur di essere felice per sempre con la sua amata.
Ma a nulla era valsa la loro promessa agli occhi dei loro genitori, furono
osteggiati, perseguitati, divisi, finché un giorno, radunati entrambi gli amici più
cari, erano fuggiti insieme verso una terra nuova e lontana, una terra dove
l’amore puro e spontaneo non fosse proibito, una terra dove i giusti desideri di
vivere e generare figli o progredire lavorando nel rispetto di Dio, fosse cosa
lecita ed accettata.
Con nostalgia, al brillare dei fuochi accesi, con occhi lucidi di speranza, il gruppo
di fedeli si preparò per la notte, alcuni sdraiandosi all’aperto, altri entrando nella
tende, era la notte di San Lorenzo, e le stelle cadenti, forse vestigia di argentee
tuniche d’angelo, lasciarono al cuore di tutti esprimere il loro desiderio. Tutti
avevano scelto, per la loro vita, il rifiuto delle armi, della ricchezza, della
distruzione. Tutti avevano deciso di vivere di ciò che la natura metteva a loro
disposizione: seminare e raccogliere, creare nuovi strumenti che avvicinassero
sempre di più l’uomo al culto della terra, unico, genuino dono del Signore.
Intanto la luna illuminava d’argento la roccia, dove il principe aveva preso a
disegnare le sembianze della Madonna in vesti bizantine: sotto le sue abili mani,
si forma la sacra effigie, la stessa Madonna che i due giovani, nell’esprimersi la
promessa d’amore, avevano invocato come loro protettrice. Il principe aveva
deciso che per pregare la Santissima e per aver da Lei la grazia di guarire la
fanciulla amata, doveva avere una Sua immagine.
Passò quasi la notte, il prodigioso disegno era ultimato, ma al principe non
parve abbastanza degno, così prese da una sacca una collana formata da pietre
preziose, e con il proprio pugnale cominciò a smontarle ed a creare dei castoni
per far preziosa ed adeguata l’immagine che aveva terminato. Tanto, pensava,
non saranno mai queste pietre a farci ricchi, ma è ciò che abbiamo dentro di noi
e la voglia di vivere ed amarci nel timor di Dio. La Madonna era meravigliosa. Le
prime luci dell’aurora si erano sostituite a quella della luna, facendo brillare la
corona di mille scintillii colorati. Allora il principe, con le mani dolenti per la
fatica, andò a sollevare la sua donzella, conducendola sino davanti all’effigie
dove l’adagiava. Ed entrambi, presi da un’atmosfera mistica, come se l’aria
fresca fosse pervasa da mille pollini di fiori, stupiti essi stessi dell’opera che il
principe non avrebbe mai pensato di poter compiere, si inginocchiarono insieme
di fronte al simulacro iniziando a recitare una dolce preghiera che venne loro
spontanea, come l’estrinsecazione dell’essenza di tutto l’amore che portavano
dentro. Cento passeri, sui rami, accompagnarono la loro preghiera e lo stormire
delle cime degli alberi accompagnò il loro verso.
Poco dopo l’alba, come richiamati da un misterioso segnale, tutta la gente si
approssimò al versante della collina scrutando l’orizzonte, dove, all’improvviso le
figure dei due ragazzi che allegramente, tenendo dietro di loro il cavallo, si
avvicinavano ai piedi dell’altura.
Tutti si sentirono felici, tutti si sorrisero perché capirono che la loro futura
principessa era guarita, che quella era la loro terra e da quel giorno sarebbe
iniziato il percorso di una tranquilla felicità.
Il principe, tenendo per mano la ormai splendente ragazza, arrivò in fretta in
cima all’altura, guardò con un sorriso la sua gente che si era approssimata a
loro, e disse che qui, dove si erano fermati, sarebbe sorto un castello, e quelle
terre intorno, equamente divise e lavorate, sarebbero sempre state il loro cibo
ed il loro orgoglio. Giurò che lui e la sua progenie avrebbero sempre vissuto nel
lavoro, amato da Dio e ringraziata in eterno la Madonna per le grazie che gli
aveva fatto. E guardando verso l’alto, scorse che le nuvole bianchissime,
illuminate dal sole nascente, avevano preso posto nel cielo come una naturale
decorazione simile a panna appena montata, allora lanciò uno sguardo circolare
alla sua gente e disse: “ Sarà questo, il paese delle nuvole bianche, e siccome è
qui che inizia la nostra vita, siccome è questo il suo contenuto, lo chiameremo
Paravita!”
E così fu: sorse un castello che domina una valle rigogliosa allora e oggi di
piante, di colture, e di uomini maestri dei campi e dell’artigianato. Gente
orgogliosa, dalle nobili origini, che si fa vanto di amare Dio e la propria terra.
Attorno al castello si aprì un grande paese, con tante chiese per ringraziare il
cielo e tante case per riposar sereni. La Madonna, scomparsa o nascosta
durante le razzie dei barbari stranieri, fu infine ritrovata ed a essa fu innalzato
un Santuario, oggi Basilica, che ricorda ancora, a tutta la popolazione, qual è di
principio la vita dell’uomo. Per questo è stata chiamata Madonna della Coltura.
Ti capiterà, un giorno, di alzare gli occhi al cielo e vedere che l’azzurro sembra
emettere freschezza, sembra volerti invitare ad ascendere, a penetrare
un’atmosfera di pace serena, di tranquilla consapevolezza dello scorrere della
vita, come se nel suo colore potessi vedere tutti gli elementi più puri della
natura.
Ti capiterà un giorno di vedere in lontananza, attraverso i merli di un maestoso
castello, il pacato movimento dell’acqua del mare di cui ti sembrerà di sentire il
rumore sempre diseguale e spumeggiante, e ti verrà la voglia di volare per
raggiungerlo immergerti nel liquido trasparente e poi di sdraiarti sulla rena
dorata assaporando l’umore del gambo di una spiga di grano, e godere del
tempo che passa intrecciando pensieri gioiosi d’amore.
Ti capiterà, un giorno, di avvicinarti ad un antico santuario e di sentire, in tutto
il tuo essere , come il canto di mille cicale, mentre le tue pupille avranno la
sensazione di essere penetrate in un alone ovattato di misticismo, di santità,
come se davvero riuscissi a percepire fisicamente il respiro dell’altissimo. Ti
capiterà, un giorno,di percorrere a piedi nudi la terra umida di un campo, e di
sentire sotto di te l’olio di un mondo perenne, il pulsare di una vita invisibile, il
lavorio di un ciclo vitale che fruttuosamente produce e si amalgama con le
miriadi di abitanti microscopici che lo circondano, sino a farti sentir rispetto per
la materia inerte, e a sospingerti in una spontanea preghiera di ringraziamento
su ciò che è dato di avere.
Ti capiterà, un giorno, di percorrere una via stretta, di sentir sbattere il martello
di un ramaio, di sentir soffiare la fucina di un fabbro, di udire una pialla che
esegue la sua opera sul legno, intuendo abili mani nodose di maestri artigiani e
sentir scalpitare in lontananza su strade acciottolate, zoccoli di cavalli e vociare
allegro di massaie e campane vicine e lontane che empiono l’aria di suoni
cristallini nel rintoccare le ore. Ti capiterà di mangiare un dolcissimo fico
beccato da un uccello e di sentire il sapore delle mandorle e del pane appena
sfornato come non lo avrai mai sentito.
Se ti capiterà tutto questo, è molto probabile che tu sia arrivato a Parabita, il
paese delle nuvole bianche.